17-7-2006
Contrariamente a quanto i miei torturatori mi avevano indotto a credere, giocando sui giorni luttuosi e pre-luttuosi nei quali ero impossibilitato a leggere tutto questo documento, la relazione Pecorella affronta anche le torture MENTALI.
È un passo avanti se si traduce in legge ma innanzitutto se
si impedisce di detenere a chiunque e per qualsiasi motivo strumenti atti a
determinare le torture MENTALI e a distanza.
Non abbiamo molta fiducia.
Sul minimo di pena per esempio non siamo d’accordo su 1 anno
ma su 10 anni minimo, e le attenuanti solo se si tratta di minorenni.
Ricordarsi dei minorenni usati da Somoza in Nicaragua per
togliere gli occhi ai sandinisti.
Difficile poi farli tornare alla normalità.
Possono capire i Sigg.Deputati.
Ma la speranza non muore mai.
Paolo Dorigo – AVae-m
SEDE REFERENTE
Mercoledì 28 giugno 2006. - Presidenza del presidente Pino PISICCHIO. - Intervengono i sottosegretari di Stato per la giustizia Luigi Li Gotti e Daniela Melchiorre.
La seduta comincia alle 15.30
Introduzione nell'ordinamento di disposizioni penali in
materia di tortura.
C. 915 Pecorella.
(Esame e rinvio).
La Commissione inizia l'esame.
Pino PISICCHIO, presidente relatore, osserva che
la proposta di legge in esame è diretta ad introdurre anche nell'ordinamento
italiano il delitto di tortura, rendendo più efficace l'attuazione della
Convenzione di New York delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984, che
l'Italia ha ratificato con la legge 3 novembre 1988,
n. 498.
In occasione di tale ratifica, il legislatore non valutò necessaria, ai fini
della piena attuazione della Convenzione, l'introduzione nel nostro ordinamento
di una specifica fattispecie penale volta a punire il delitto di tortura. A
questa conclusione si pervenne ritenendo che le condotte riconducibili alla
definizione di tortura sancita dall'articolo 1.1 della Convenzione fossero
comunque riferibili a fattispecie penali già previste dalla legge italiana,
come, ad esempio, quelle dirette a punire, anche in maniera eventualmente
aggravata, l'omicidio, le lesioni, le percosse, la
violenza privata o le minacce. Non si ritenne, quindi, necessario
accompagnare la ratifica con norme di attuazione interna.
Secondo la proposta di legge in esame, la scelta del legislatore
del 1988 deve essere rivista. La legislazione vigente, infatti, non punirebbe tutte le condotte riconducibili alla nozione di
tortura così come intesa, non soltanto dalla Convenzione di New York, ma anche
dal cosiddetto comune sentire. In tale nozione
rientrerebbero anche alcuni comportamenti disumani e degradanti della dignità
umana che non sarebbero riconducibili alla nozione di violenza o di minaccia
elaborata dalla nostra giurisprudenza. Tra queste nozioni e quella di
tortura vi sarebbe una zona grigia che
sostanzialmente si tradurrebbe in una violazione della Convenzione ONU del
1984, ratificata dall'Italia nel 1988.
La proposta di legge in esame riproduce integralmente una proposta presentata
nella XIV legislatura dagli onorevoli Pecorella e Mormino, rispettivamente il
Presidente della Commissione giustizia ed il relatore di una serie di proposte
di legge in materia di tortura, il cui esame in Commissione giustizia si è
protratto, sia pure con delle pause di riflessione, per oltre quattro anni. La
proposta fu presentata per superare una situazione di stallo che si era venuta
a creare tra i gruppi nel tentativo di individuare una definizione adeguata del
delitto di tortura, dopo che l'Assemblea , su richiesta unanime della
Commissione, aveva rinviato in Commissione il testo unificato approvato in sede
referente, a seguito dell'approvazione da parte dell'Assemblea di un
emendamento che rischiava di ridurre eccessivamente la portata del testo
stesso. La conclusione della legislatura non consentì di risolvere in tempo
utile tutte le questioni connesse alla introduzione nel nostro ordinamento di
una fattispecie penale in materia di tortura.
Osserva che, in effetti, non è un compito semplice pervenire ad una
formulazione della fattispecie del delitto di tortura che, da un lato, sia
pienamente conforme alla definizione di tortura della Convenzione od a ciò che
può essere considerata la comune nozione di tortura e, dall'altro, consenta di
definire in termini sufficientemente precisi gli aspetti tipici della nuova
ipotesi di reato con specifico riferimento ai soggetti attivi e passivi, alla
natura ed ai contenuti delle condotte perseguibili ed alle finalità cui esse
siano indirizzate. Il lavoro della Commissione nella scorsa legislatura fu
lungo, impegnativo e sofferto anche perché - come evidenziò il relatore del
provvedimento, l'onorevole Mormino nella illustrazione all'Assemblea del testo
approvato dalla Commissione in sede referente - vi era «la consapevolezza che
le situazioni tipiche descritte nella fattispecie avrebbero potuto subire
effetti distorti nel momento della loro applicazione a causa di una
interpretazione tendenzialmente estensiva che avrebbe potuto determinare il
rischio di colpire soggetti o condotte ovvero riguardare fatti che nell'esercizio
di poteri pubblici istituzionali dovrebbero essere ritenuti legittimi o
contenuti in termini effettivi di rispetto della legalità».
La proposta di legge è stata formulata sulla base della definizione di tortura
sancita dall'articolo 1.1 della Convenzione di
New York, che sembra essere comprensiva anche di tutte quelle
situazioni che rientrano nella nozione di tortura così come comunemente intesa.
Secondo la convenzione, «per tortura si intende qualsiasi
atto mediante il quale siano intenzionalmente inflitti ad una persona
dolore o sofferenza forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere
da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un
atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di
intimorirla o far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una
terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di
discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente
della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale,
o su sua istigazione, o con il consenso espresso o tacito. Tale termine non si
estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni
legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate».
L'articolo 1 riprende sostanzialmente tale definizione introducendo nel codice
penale l'articolo 613-bis. Ai sensi di questo articolo, è punito con la
reclusione da uno a quindici anni chiunque infligge ad una persona una tortura
fisica o mentale, sottoponendola a patimenti disumani o a sofferenze gravi,
allo scopo di ottenere informazioni o confessioni da essa o da una terza
persona su un atto che essa stessa o una terza persona ha commesso o è
sospettata di avere commesso ovvero allo scopo di punire una persona per gli
atti dalla stessa compiuti o che la medesima è sospettata di avere compiuto
ovvero per motivi di discriminazione razziale, politica, religiosa o sessuale.
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, la pena è aumentata se dal
fatto deriva una lesione grave o gravissima; è raddoppiata se ne deriva la
morte. Così come previsto nella Convenzione, si precisa che il fatto non è
punibile se sono inflitte sofferenze o patimenti come conseguenza di condotte o
sanzioni legittime ad esse connesse o dalle stesse cagionate.
La fattispecie consistente nell'infliggere ad una
persona una tortura fisica o mentale ruota intorno a due elementi: quello
materiale della sottoposizione di una persona a patimenti disumani o sofferenze
gravi, che possono essere indifferentemente fisici che mentali, e quello
psicologico della finalità della condotta (dolo specifico) volta ad ottenere
informazioni o confessioni anche riguardo a terze persone o a punire una
persona per gli atti compiuti o sospettata di avere compiuto ovvero per motivi
di discriminazione razziale, politica, religiosa o sessuale.
Dalla definizione di tortura della Convenzione, quella della
proposta di legge in esame si differenzia tuttavia parzialmente, in primo luogo
sotto il profilo del soggetto attivo del reato. Mentre la prima configura un
reato proprio, cioè un reato che può essere commesso esclusivamente da «un
agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisce a titolo
ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito», la
seconda, invece, configura un reato comune, in quanto il reato può essere
commesso da chiunque. La portata della nozione di tortura della proposta di
legge sarebbe dunque anche più ampia di quella della Convenzione. Si tratta di
una scelta che, se è vero che rischia di ampliare eccessivamente la fattispecie
di tortura fino a ricomprendervi anche ipotesi che forse sono estranee alla
comune nozione di tortura, ha il pregio di ridurre sensibilmente quella area
grigia del diritto penale che, in alcuni casi, finisce nel tradursi in una vera
situazione di impunità. Su questo punto la Commissione potrà riflettere. Dovrà
chiedersi se dalla circostanza che il soggetto attivo del reato non debba
essere necessariamente un pubblico ufficiale od un incaricato di pubblico
servizio possa derivare come conseguenza la possibilità di far rientrare nella
fattispecie di tortura anche il caso in cui i patimenti disumani o le
sofferenze gravi siano finalizzati ad ottenere dalla vittima informazioni circa
un fatto attinente esclusivamente alla sua sfera privata ovvero a punire la
medesima per avere commesso tale fatto. Si pensi, ad esempio,
ad un coniuge che punisca l'altro coniuge con patimenti disumani a causa di
una presunta relazione extraconiugale ovvero per farlo confessare. Questo è un
caso di tortura che forse non è riconducibile al comune sentire, ma che
verrebbe punito dal nuovo articolo 613-bis del codice penale. La Commissione,
in sostanza, deve chiedersi se il delitto di tortura debba sostanziarsi
comunque in un abuso dell'esercizio dei pubblici poteri ovvero se possa
esaurirsi anche nell'ambito strettamente privato dei soggetti coinvolti. Nel
primo caso, i soggetti passivi del reato verrebbero individuati unicamente in
tutti coloro che possono trovarsi sottoposti all'esercizio del potere pubblico
in una condizione, anche temporanea od occasionale, di limitazione della
libertà, della quale si può illecitamente abusare al fine di ottenere
informazioni o confessioni su fatti o atti commessi da loro stessi o da persone
da loro diverse.
Si ricorda, comunque, che la configurazione del reato come reato comune è
dettata dalla esigenza di punire anche le c.d. zone grigie, come possono essere
le condotte di squadre paramilitari. È evidente che la scelta a favore della
ipotesi del reato comune deve essere accompagnata da un impegno rigoroso nel
circoscrivere la condotta e l'elemento soggettivo del reato in maniera tale che
ad esso non siano riconducibili fattispecie del tutto estranee alla nozione di
tortura.
In ordine alla descrizione della condotta e della finalità (c.d. dolo
specifico) della medesima, sarà la Commissione a valutare l'opportunità di
apportarvi eventuali modifiche od integrazioni. Per ora mi limiterò a
sottoporre alla Commissione uno spunto di riflessione sulla determinatezza,
sotto il profilo del principio di legalità, della formulazione della
disposizione relativa alla sottoposizione di un soggetto a «patimenti disumani
o a sofferenze gravi». Occorre al riguardo chiedersi quando un patimento o una
sofferenza possano considerarsi rispettivamente disumani o gravi.
Uno dei punti più delicati è quello relativo alla esclusione della punibilità
del reato, nell'ipotesi in cui le sofferenze o i patimenti, in cui si sostanzia
la tortura, siano inflitti come conseguenza di condotte o sanzioni legittime ad
esse connesse o dalle stesse cagionate. Come si è già rilevato, vi è l'esigenza
di evitare che la previsione del delitto di tortura si presti a letture
strumentali che potrebbero essere a danno di coloro che lecitamente compiono
attività di indagine giudiziaria o curano il trattamento di persone detenute.
Al fine di evitare tale rischio, la proposta di legge precisa che «il fatto non
è punibile se sono inflitte sofferenze o patimenti come conseguenza di condotte
o sanzioni legittime ad esse connesse o dalle stesse cagionate». Nella scorsa
legislatura, furono espresse (in particolare, dall'on. Buemi) forti perplessità
su una formulazione della scriminante in tal senso, in quanto questa avrebbe
potuto ridurre sostanzialmente la portata applicativa della nuova ipotesi
delittuosa. Si evidenziava che il delitto di tortura in Italia non avrebbe
trovato applicazione per casi di tortura del tipo di quelli che si sono
verificati in alcuni paesi latino-americani negli anni 70-80, quanto piuttosto
per quei casi limite in cui la condotta delittuosa sia posta in essere proprio
in occasione di «condotte, misure o sanzioni legittime». Secondo tale tesi, la
disposizione si sarebbe dovuta formulare in maniera tale da poter applicare la
norma sul delitto di tortura anche in caso di grave abuso nella applicazione in
concreto di una misura coercitiva prevista dalla legge. A tale proposito,
veniva fatto l'esempio della carcerazione preventiva utilizzata strumentalmente
al solo fine di ottenere informazioni o confessioni da parte del destinatario
della misura. Il presidente della Commissione, onorevole Pecorella, ed il
relatore, on. Mormino, condivisero le preoccupazioni appena richiamate. Il
relatore, pertanto, ritiene si sarebbe potuto prevedere che «le disposizioni di
cui ai commi precedenti non si applicano al dolore od alle sofferenze
risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse
cagionati».
Per quanto riguarda la pena, la proposta di legge prevede che il reato sia
punito con la reclusione da 1 a 15 anni. È vero che è stato fissato un limite
minimo tale da consentire una sua ragionevole commisurazione rispetto alla
entità dei fatti meno rilevanti ed un limite massimo che tenga conto della
abituale gravità ed odiosità delle condotte e dei valori lesi che riguardano i
diritti fondamentali e le libertà della persona e che sono state previste
ipotesi di aggravamento nel caso che dalle torture inflitte dovessero derivare
lesioni gravi o, addirittura, la morte del soggetto passivo del reato. Ma è pur
vero che si finisce coll'attribuire al giudice una discrezionalità nel fissare
in concreto la pena tanto ampia da far nascere dei dubbi sotto il profilo del principio
di legalità. Si ricorda, infatti, che la Corte costituzionale ha più volte
ribadito che la previsione in una legge di un margine eccessivo tra il minimo
ed il massimo edittale può tradursi in una violazione del principio secondo cui
la pena è determinata dalla legge e fissata in concreto dal giudice.
Al quarto comma dell'articolo introdotto nel codice penale, si prevede
espressamente il diniego di ogni «immunità diplomatica» nei confronti di
cittadini stranieri già condannati o sottoposti a procedimento penale per il
delitto di tortura da autorità giudiziarie straniere o da un tribunale
internazionale. Di costoro si prevede l'estradizione. Si tratta di una
disposizione che si occupa del versante internazionale del fenomeno della
tortura, escludendo che l'immunità diplomatica possa essere usata in Italia
come uno scudo da parte di criminali che hanno commesso o sono accusati di aver
commesso atti di tortura nel loro Paese.
La proposta di legge, infine, introduce nel codice penale anche un articolo (articolo
613-ter) avente ad oggetto il caso in cui il delitto di tortura previsto
dall'articolo 613-bis sia stato commesso all'estero. È una ipotesi
diversa da quella che abbiamo appena decritto, in quanto l'esclusione
dell'immunità si riferisce al caso in cui la condanna o l'imputazione sia
conseguenza dell'applicazione di una disposizione appartenente ad un
ordinamento diverso da quello italiano.
Con l'articolo 613-ter, in ragione della gravità del delitto di tortura,
è sembrato opportuno inserire il delitto di tortura tra quelli che ai, sensi
dell'articolo 7, numero 5), del codice penale sono puniti dalla legge italiana
indipendentemente dal luogo ove sono commessi o dalla nazionalità del reo o
della vittima. Tale disposizione si fonda sul principio di universalità,
secondo il quale ai delicta juris gentium, tra i quali rientra anche la
tortura, si applica la legge nazionale anche quando il fatto sia commesso
all'estero. Si prevede, pertanto, che per il delitto di tortura vi sia da parte
della giurisdizione italiana una competenza extraterritoriale assoluta.
Giulia BONGIORNO (AN) dopo aver ricordato che la giurisprudenza della Corte costituzionale è oramai costante nel considerare lesive del principio di legalità le disposizioni di legge che, come la proposta di legge in esame, attribuiscono al giudice una eccessiva discrezionalità nel determinare la pena, prevedendo un ampio margine tra il limite minimo e quello massimo della pena, evidenzia come la previsione del limite minimo della reclusione di un anno sia inadeguata a sanzionare fatti di estrema gravità, come quelli descritti dalla nuova fattispecie penale del delitto di tortura. A tale proposito, sottolinea l'esigenza di fissare un limite minimo di pena che almeno escluda la possibilità di concedere la sospensione condizionale della pena. Ritiene che possa corrispondere alla gravità dei fatti che, con l'introduzione del delitto di tortura, si intendono punire, fissare a tre anni il limite minimo della pena, fissando, invece, ad otto anni il limite massimo.
Francesco FORGIONE (RC-SE) nell'annunciare di aver presentato una proposta di legge volta ad introdurre il delitto di tortura nel codice penale, sottolinea che questa punisce tale delitto con la pena minima di tre anni di reclusione.
Pino PISICCHIO, presidente relatore, assicura che tale proposta di legge sarà abbinata alla proposta in esame non appena verrà assegnata alla Commissione Giustizia.
Manlio CONTENTO (AN) ritiene che dalla finalità, da lui condivisa, di conformare la fattispecie penale del delitto di tortura a quella descritta dalla Convenzione di New York del 1983 debba derivare come conseguenza l'inasprimento del limite minimo di pena previsto dalla proposta di legge in esame. Sempre al fine di attuare correttamente la citata Convenzione occorrerebbe limitare l'ascrivibilità del delitto di tortura ai soli pubblici ufficiali ed incaricati di pubblico servizio.
Edmondo CIRIELLI (AN) condivide l'esigenza espressa dal relatore di formulare una fattispecie che sia sufficientemente determinata ai sensi del principio di legalità. A tale proposito, esprime perplessità sulla formulazione ancora insoddisfacente del delitto di tortura contenuta nella proposta di legge in esame. Condivide, invece, la scelta di configurare il delitto di tortura come reato comune, in quanto altrimenti si rischierebbe di lasciare impunite talune figure non riconducibili direttamente ai soli pubblici ufficiali od incaricati di pubblico servizio.
Pino PISICCHIO, presidente relatore, nessun altro chiedendo di intervenire, rinvia quindi il seguito dell'esame ad altra seduta.
La seduta termina alle 16.
Il seguente punto all'ordine del giorno non è stato trattato:
SEDE REFERENTE
Modifiche al codice di procedura penale in materia di revisione a seguito
di sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo.
C. 917 Pecorella.