Se piace ai neuroni

Silvie Coyaud (giornalista di radiopopolare e sole24ore)

Semir Zeki discute la fisiologia dell’estetica

Per le Lezioni italiane della Fondazione Sigma Tau e degli editori Laterza, dal 2 al 4 giugno 1998  all’Università statale di Milano, il professore di neurobiologia all’University College di Londra Semir Zeki ha organizzato uno spettacolo multimediale e interattivo sul tema "Mente e Bellezza".

     Semir Zeki agli inizi degli anni Settanta compì una scoperta fondamentale: riuscì cioè a identificare, nella corteccia prestriata di ciascun emisfero cerebrale della scimmia, una piccola area specializzata nella risposta al colore.

     La fama di Zeki è dovuta anche a ricerche condotte con l’americano Edwin Land, l’inventore della Polaroid, «un’etichetta riduttiva che lo mandava in bestia», dice Zeki, «era un genio della visione dei colori». Insieme avevano usato il "Mondrian", un insieme di rettangoli diversamente colorati messo a punto da Land, per esaminare la vista normale di soggetti umani e animali. Nell’aula magna, quel quadro è al centro del palco il primo giorno. Quando Zeki prende la parola, il pubblico ne ha già subito l’effetto ipnotico. Poco dopo, viene proiettato un filmato. Dei rettangoli monocromi passano nel campo visivo di un soggetto, mentre in fondo all’inquadratura viene registrata su un grafico l’attività dei neuroni sensibili alla lunghezza d’onda del rosso. I neuroni sono apatici davanti all’azzurro, al verde, al giallo. Compare il rosso, e si agitano di sussulti accompagnati da un crepitare di mitra. Quando torna la luce in sala, si adocchiano i rettangoli rossi del "Mondrian" con diffidenza: «Giù le mani dal mio cervello». Invece Zeki situa negli strati della corteccia i meccanismi della visione, mentre dei proiettori illuminano il quadro con una lunghezza d’onda che ne trasforma il rosso vivo in sangue rappreso. Così vediamo quello che fa il nostro cervello qui e ora: «Costruisce il colore, le forme, il movimento, calcolando i rapporti tra le frequenze, attraverso delle aree distinte ma correlate che funzionano come un sistema di computazioni in parallelo».

     Il secondo giorno è dedicato ai danni provocati dalle lesioni alla corteccia visiva. Cosa provano, quei pazienti che vedono degli occhi, una bocca, e non sono più in grado di ricomporli in una faccia, eppure la riconoscono? E quando scompare la percezione della profondità o della forma, e le conseguenti sensazioni ed emozioni? Il cervello, conclude Zeki, funziona a moduli che sbrigano tutto: la misura, la selezione e la messa in ordine degli stimoli esterni, e anche l’interpretazione e le risposte affettive e cognitive che ne conseguono.

     Nella terza conferenza, affronta infine il tema "mente e bellezza". La bellezza è illustrata dalla Pietà di Michelangelo, da autoritratti di Rembrandt e Tiziano, da quadri cubisti o geometrici post Malevic e post Mondrian. Zeki sostiene che gli artisti eccelsi soddisfano precisamente la capacità di determinati neuroni di riconoscere un volto, e di altri di attivarsi davanti a un quadrato azzurro incorniciato di bianco, ma non davanti allo stesso quadrato incorniciato di nero. Le regole della fisiologia cerebrale detterebbero le regole dell’arte, perché nonostante la variabilità di ogni singolo cervello, davanti a un’opera, delle cellule identiche hanno identiche reazioni in tutti noi. Sa di avventurarsi in terre incognite e minate: «È certo che possiamo sbagliare» nel dare all’attività neuronale della corteccia visiva un’interpretazione in termini di risposta alla qualità estetica di certe immagini. Avanza baldanzoso comunque e incappa in una mina via l’altra. D’accordo, la cultura è figlia della biologia umana, però ridurre la seconda ai neuroni della visione e legarla alla prima da catene causali è «una provocazione», protesta uno spettatore.

Un altro si ribella all’affermazione di Zeki, per cui «l’arte, come la visione, avrebbe la funzione di farci acquisire informazioni sul mondo». Non ci siamo. Ragionare sul cervello umano a partire da rappresentazioni nate da un’esigua minoranza storica e geografica è strambo. Viene da chiedersi quale bellezza un cinese o un indio veda nell’autoritratto di Rembrandt giovane. Se le francesi che avevano messo in bocca alla Madonna di una Pietà il fumetto "Si j’avais su, j’aurais pris la pillule" fossero travolte dallo stesso pathos provato da Zeki. Sì, siamo animali visivi, cioè spaziali. Però la nostra visione, come le altre costruzioni cerebrali, è stata trasformata dall’evoluzione del linguaggio, portatore di strepitosi effetti speciali: simboli, giochi, trasmissione delle esperienze, navigazione nel tempo con l’invenzione della narrativa e delle sue ambiguità. Ma Zeki, che pur ammira Marcel Proust, non ha una grande opinione del linguaggio, e ripete che l’emozione estetica è indicibile. Quanto conti invece la narrativa, lo dimostra la sua reazione di fronte a un Vermeer in cui un giovin signore guarda una fanciulla seduta di spalle al clavicembalo. Zeki s’interroga non a partire dalla corteccia visiva, computatrice della spazialità e della luminosità del quadro, ma con l’intera fisiologia che va dai genitali alle aree di Broca e di Wernicke: l’"informazione sul mondo" che gli preme sapere è se i due personaggi si amano o no e perché. Davanti alla "bellezza" infatti, la "mente" racconta storie, magari d’amore. Zeki spiega poi che «il cubismo è un’arte fallita perché i cubisti hanno voluto fare ciò che ai neuroni non riesce: separare la forma dal colore». Per comprovarlo, proietta un Picasso dove il violinista e il suo strumento sono svaniti in una sovrapposizione di rettangoli beige.

     Ma il quadro ha un nome fatto di linguaggio e, come Il mastino dei Baskerville, che mette Sherlock Holmes sulla pista perché non c’è e non abbaia, il violinista assente dall’immagine e presente nel titolo ci mette sulla pista delle intenzioni del racconto soggettivo di Picasso. Il linguaggio ha una libertà che la visione, con il suo colore prigioniero della forma, non sospetta nemmeno.